
di Aurora Marella
Durante questo ultimo mese mi sono imbattuta in una serata strana, diversa dalle serate di divulgazione o di intrattenimento che generalmente cerco per arricchire le mie giornate, la mia consapevolezza, le mie attitudini e il mio sapere sulle cose del mondo e sui punti di vista.
In una di queste serate ho incontrato un cantastorie.
Ecco, io pensavo che questo lavoro non esistesse più e che fosse oggetto di studio delle metodologie didattiche dell’antica Grecia o del Medioevo nelle corti.
Gli aedi e i menestrelli, i giullari, si presentavano come coloro che insegnavano alla gente del popolo le storie antiche, i miti, le leggende, le imprese eroiche e anche la Storia, fino ai fatti di cronaca, raccontati cantando, danzando, suonando, per far ridere fino a far piangere dalla commozione. La gente restava attorno, faceva capannello e fissava lo sguardo.
Il mio cantastorie, quella sera, mi chiese di quale storia avessi bisogno e al momento io non lo sapevo. Abbiamo comunque parlato e, alla fine, una storia di cui avessi bisogno c’era e l’abbiamo costruita insieme ed è stato un momento molto tremolante, come la fiammella di una candela che resiste e illumina un piccolo angolo di buio facendo tutta la differenza.
Durante questo mese ho scoperto la storia di cui ho bisogno adesso e, dato che il cantastorie non è più a mia disposizione, la scrivo io e divento io il mio cantastorie. E spero anche vostro.
Voglio cantare la storia delle panchine rosse di cui in questi giorni sentiamo parlare da tutte le parti. Ma mi sono resa conto che io non sapevo niente delle panchine rosse, della loro storia. Le conosco come le conoscono tutti o quasi tutti quelli a cui ho chiesto se possiedano saperi sulla la storia delle panchine rosse: le si conosce come simbolo attuale contro la violenza sul genere femminile, senza sapere in che modo siano stati scelti la panchina, il rosso, quando, da chi.
Chiedendo in giro di qua e di là, alla gente che con cui mi relazioni, ho scoperto che nessuno conosce il motivo per cui ci sono proprio delle panchine rosse ma tutti sappiamo che ci sono e sono lì per insegnare e far ricordare.
Quindi, la mia storia parte da quando le panchine rosse non c’erano.
La prima panchina rossa nasce da un progetto torinese nel 2014, quando a novembre il giorno 26, venne installata la prima nel capoluogo piemontese. La panchina voleva ricordare la donna uccisa da un componente familiare conosciuto, amato, e da cui, in teoria, bisogna sentirsi protetti. Quindi, la prima panchina voleva già ricordare quello che sappiamo tutti oggi cioè la vittima di un amore che amore non è. La panchina era stata posta in un luogo pubblico, di viavai. Un monito. Dipinta rosso sangue, due occhi grandi femminili. Un’intuizione dell’artista Karim Cherif. Guardami, dicono gli occhi disegnati sulla panchina. Non voltarti dall’altra parte. Un appello. Passante, siediti, parla, ascolta.
Si ricorda a novembre, il 25, la Giornata contro la violenza sulle Donne per non dimenticare il fatto che ha portato alla scelta di questo mese e giorno per questa commemorazione tanto triste quanto assurda ma purtroppo sempre attuale, pur con variabili e concause diverse che corrono dal sociale, al politico al domestico.
Si sceglie novembre perché nel 1960, nella Repubblica Dominicana, due attiviste furono uccise violentemente da dei sicari mentre si recavano in carcere a trovare i loro mariti, prigionieri politici.
Altro luogo, altro continente, altra epoca storica, altro movente. Stesso crimine.
Tornando alla nostra storia locale, a Torino, dove è partito tutto in Italia, vennero installate altre dieci panchine rosse, e poi ancora altre dieci, ma queste furono ricoperte di polemiche sterili relative ai pregiudizi sugli immigrati ritenuti la causa unica dei problemi di violenza di genere. Il senso della lotta contro un’educazione violenta che parte dalla propria casa è stato un po’ stravolto attraverso queste polemiche perché la panchina non nasceva per simboleggiare la criminalità cittadina, problema diffuso certamente ma non era quello il tema, ma, come sappiamo, era lì – occhi negli occhi di tutti – per urlare in
silenzio di quei delitti passionali, di controllo, interni alla sfera delle conoscenze familiari, interni alla propria casa e famiglia, quelle gabbie segrete fatte di grovigli emotivi mai sciolti.
Altra cosa, insomma. Qualcosa di cui ancora la politica, la società, l’educazione non si stavano prendendo carico.
Dal torinese, la storia delle panchine rosse è passata nella Lomellina, in provincia di Pavia, dove una bibliotecaria ha portato avanti con attivismo e vigore questo discorso fino a convocare nella vicina biblioteca di Magenta nel settembre del 2016 l’Assemblea degli Stati Generali delle Donne “in memoria di tutte le donne uccise per mano di chi diceva di amarle”, rendendo inequivocabile la tematica, chiara, delineata. Questa era la frase di presentazione che definiva il Convegno, anche questo dal nome che prendeva spunto chiaramente dalla Rivoluzione Francese, perché stava avvenendo una rivoluzione sociale.
Ecco, una questione di educazione, di percorso attento alla salute della famiglia e dei
sentimenti. Una novità.
In questa ricerca ho scoperto anche da dove viene il color rosso. Ovviamente, rosso sangue. E dalle scarpe rosse, in un’installazione artistica nella piazza della città messicana Ciudad Juarez. Un’installazione dell’ottobre del 2009 dell’artista Elina Chauvet.
Trentatré paia di scarpe rosse per ricordare centinaia di donne uccise, moltissime in quella stessa città, in un circolo caotico e terribile di omicidi seriali di giovanissime lavoratrici nell’industria del tec-duty free. Un caso sociale che ha scosso il mondo di cui si parla ancora troppo poco e su cui è stato girato un film, un po’ action a dire il vero, ma comunque a testimonianza dei fatti, Bordertown.
Il rosso delle panchine deriva da quelle scarpe rosse della città messicana. In comune hanno la triste matrice del femminicidio ma, pur partendo e concludendo nello stesso concetto, le panchine e le scarpe fanno due giri storici e sociali diversi.
Nel 2021 il simbolo della panchina rossa è stato dichiarato come il marchio che doveva avere la garanzia che venisse usato per finalità sociali e politiche con il chiaro intento di essere utilizzata per dire no alla violenza di genere e, nello specifico, alla violenza domestica per mano dei familiari.
Adesso tutta l’Italia è costellata di panchine rosse che rappresentano un punto di incontro simbolico, un invito a sedersi e parlare in mezzo alla natura di un parco o su un marciapiede.
Un invito silenzioso, intimo, discreto in un luogo aperto e sicuro come qualsiasi luogo dovrebbe essere, soprattutto la propria casa. Perché il senso della vita e del rispetto deve essere fatto crescere dentro e guidato, preso in carico da tutti.
E così, mi sono trasformata in un cantastorie. Ho raccontato la storia di cui avevo bisogno.
L’ho raccontata a me e l’ho raccontata per chi ha voluto leggerla, a tutti coloro che si sono posti la mia stessa domanda sulla storia sulle panchine rosse oppure no.
Le panchine rosse, ora, per me, hanno un senso in più.
