
di Giacomo Pio Augello
Me lo ricordo ancora.
E me lo porterò dentro per tutta la vita.
Il mio primo esame.
“Tra una settimana ti fai l’esame” mi aveva detto il Maestro 8 giorni prima.
Non ci potevo credere.
Io, fino a quel momento, avevo praticato sport, ma mai con uno scopo preciso.
Mi “tenevo in forma” semplicemente perché ero (e lo sono ancora) convinto che il segreto per una vita felice risiedesse nell’equilibrio tra l’attività intellettuale e l’esercizio fisico.
Ne avevo avuti tanti di esempi di persone che si erano distrutte per non aver saputo dare il giusto peso ad entrambe le cose.
Io volevo essere diverso.
Volevo dimostrare che, per poter conseguire grandi risultati nel proprio lavoro, è indispensabile godere di una salute fisica forte e l’unico modo per ottenerla è attraverso l’allenamento costante.
Nonostante i miei intenti, le mie scarse qualità atletiche non mi avevano consentito, né, tantomeno, fatto sperare, di raggiungere un qualche risultato.
Fino a quel momento.
Era una sera di aprile.
In palestra, respiravo un’atmosfera intensa ed elettrizzante.
Ancora non lo sapevo, ma ero io a renderla tale.
Per l’emozione che mi animava al pensiero di stare per compiere un passo verso un livello superiore di preparazione.
Dopo il rituale di apertura della lezione e il riscaldamento, i due allievi più anziani del corso mi portarono in una stanza appartata.
Si sedettero su una panca con un quaderno e una penna e mi chiesero di eseguire in un’unica tirata le sequenze che avevo imparato fino a quel momento.
Lì dentro, lontano dagli sguardi dei miei compagni e dalla voce del Maestro, mi confrontai per la prima volta, in uno scontro diretto, con i miei limiti.
E le mie capacità.
Finita la lezione, il Maestro mi invitò sotto l’altare e, davanti a tutti i presenti, in una formale cerimonia, mi consegnò il diploma per il superamento dell’esame.
Non ci potevo credere.
Io, che ero stato dato per spacciato già dopo il primo giorno di lezione, avevo conseguito un risultato in uno dei sistemi di arti marziali più completi al mondo.
Quell’esperienza mi cambiò per sempre.
Fin da quando ho iniziato a praticare, ho sempre saputo che il Kung Fu è un percorso di crescita che porta a migliorarsi attraverso l’acquisizione di abilità che prima non si possedevano.
Per questo l’ho scelto come una parte integrante della mia vita (chi ha letto il numero di giugno” La più universale delle domande” lo ricorderà).
Ma l’esperienza di quel primo esame, traguardo che mi era costato fatica e impegno, ma, soprattutto, che non era affatto scontato che raggiungessi, mi rese consapevole del fatto che io potevo essere artefice del mio Destino, tanto in palestra quanto in tutti gli altri aspetti della vita.
Questa presa di coscienza mi fece pensare ad Efesto, il più umano tra gli Dei dell’Olimpo.
Perché vi dico questo?
Perché Efesto è un dio imperfetto.
Al contrario delle altre divinità del pantheon greco, bellissime nei lineamenti e nelle proporzioni, lui è zoppo e sgradevole alla vista.
Il suo aspetto è talmente insolito per gli standard del suo mondo, che, quando nasce, Era, inorridita dalle sembianze storte di quella creatura generata con il marito fratello Zeus, lo getta già dall’Olimpo.
Ora, immaginate il dolore di questo bambino.
Ripudiato dalla sua stessa madre solo perché era quello che era.
Un diverso.
Ma, come oggi ci sono figure che proteggono queste creature, anche l’arcaico mondo greco aveva i suoi Angeli Custodi.
Ed Efesto li trovò nelle ninfe del mare, Eurinome e Teti, la futura madre di Achille.
Furono loro a raccogliere il piccolo Efesto dopo un volo durato un giorno e una notte.
Lo accudirono, lo nutrirono. Lo portarono per la prima volta nel cratere di un vulcano.
Lì, l’andamento claudicante della fiamma viva incendiò lo sguardo e la mente del piccolo e la sua luce rossa gli indicò la strada per il suo riscatto: la divina agilità delle sue mani.
Ed Efesto seguì quella strada divenendo il dio metallurgo.
Grazie alla sua abilità, creò opere straordinarie, capaci di stupire sia per la loro bellezza che per il loro potere distruttivo.
E’ questa la caratteristica che fa di Efesto un dio unico del suo genere.
Mentre le altre divinità non fanno niente, a parte infliggere solenni castighi ai mortali magari per una frase inappropriata detta in un momento particolarmente emozionante (la povera Niobe, pur trasformata in roccia, sta ancora piangendo la morte dei suoi 50 figli per mano dei 2 crudeli gemelli di Latona, Apollo e Artemide), Efesto lavora.
Non ha tempo di curarsi delle sciocchezze dei mortali.
Ora, le sue opere più celebri sono le folgori di Zeus.
Ma (lo dico da appassionato), la sua opera più bella è l’armatura di Achille.
Perché dico questo?
Perché quell’artefatto forgiato solo dalle sue mani divine fu, in realtà, un gesto d’amore.
Omero, infatti, racconta che dopo la morte di Patroclo, Teti si recò da Efesto e inginocchiatasi ai suoi piedi lo pregò di fabbricare per il figlio un’armatura che lo proteggesse dalla morte.
Il dio metallurgo, memore di quanto la ninfa aveva fatto per luiquando era piccolo, pensò: “E’ grande dovere pagare a Teti riccioli belli tutto il compenso!” e subito le disse: “Coraggio. Questo non ti preoccupi il cuore. Con me, avrà armi bellissime, tali che ognuno le ammirerà che le veda, anche fra molti mortali. (Iliade Canto XVIII vers. 440 – 465”).
E così fece.
Mettendo la sua arte al servizio della sua benefattrice, forgiò in una sola notte un capolavoro di bronzo, stagno e oro.
Tanto prezioso da generare, al momento della morte del Pelide, una odiosa contesa tra Aiace Telamonio, la gigantesca rocca degli Achei, e il Laerziade Odisseo, maestro di inganni.
Tornando a me, ogni volta che faccio un esame, mi viene sempre in mente quella stanza e penso: “ Non stai solo facendo un esame. Stai forgiando il te stesso di domani”.
Ora che conoscete la storia e il mito, provate anche voi ad utilizzare gli strumenti donati dalla Natura per realizzare opere straordinarie.
Così potrete essere come i protagonisti del film “Il Volo della Fenice”: artefici del vostro Destino.
Un caro saluto.
